Qualche giorno fa leggevo la newsletter di
che si intitola ed è tra le mie preferite. L’ultimo numero parlava di fallimento. È qualcosa su cui mi sto interrogando spesso anche io, anche in relazione alla corsa.Ho messo in conto di fallire in molti modi, nel mio viaggio verso Atene. Potrei infortunarmi e dovermi fermare. Potrei arrivare alla gara e non riuscire a terminarla. Potrei dover rinunciare a partire pur essendomi preparata per mesi. Potrei persino chiudere la corsa senza essermi divertita. Anche quello lo percepirei come un fallimento.
Il mio obiettivo non è fare un gran risultato, solo finire la corsa dentro i tempi, ma pure godermela. La sofferenza fa parte del gioco, certo. La corsa è uno sport di resistenza e la fatica ne è parte integrante, anzi fondante. A chi corre piace faticare perché è il mezzo per spingersi un po’ più in là. Ci piace meno fallire. Sto usando un noi in modo un po’ presuntuoso, forse, parlando per tanti. Parlo solo per me: soffrire sì, fallire no. Però le due cose sono inestricabili.
Quando commento delusa una brutta corsa con il mio coach, lui mi dice che è giusto e sano fallire. Anzi, necessario. Fallire in allenamento, ripetutamente, ti abitua a reagire alle difficoltà. Affrontare ogni sorta di imprevisto in allenamento ti insegna ad affrontarli in gara, quando non hai tempo per piangerti addosso e certo non puoi interrompere la corsa e riprovare domani.
Se mi alleno all’imprevisto, quando capita in gara so già cosa fare e come. Il muro. La testa che se ne va. Una vescica sul piede. Un crampo. L’emergenza bagno. Di tutto. Il momento del panico in allenamento mi evita il panico in gara.
Accettare di fallire mentre mi alleno, quando le variabili sono sotto il mio controllo molto più che in gara, significa anche imparare ad accettare che quel giorno lì, tanto atteso e carico di speranze, può andare male per ragioni che dipendono da me oppure no. In alcuni casi sono cose che posso risolvere: rallento, mi fermo un attimo, un massaggio, un cerotto, un gel extra, una siepe. In altri no. Stacce, dice il saggio.
La verità è che le delusioni più cocenti, gli obiettivi mancati, le speranze dissolte bruciano forte ma rendono anche l’esperienza più vera e più umana. Anche più vivida. Non so tu, ma io ricordo molto meglio insuccessi e musi lunghi rispetto alle felicità. Sono rimasti incisi nella memoria perché avevano un significato che andava oltre la delusione. Erano una lezione.
Me lo appunto qui: non devo solo accettare i fallimenti ma devo osare fallire. Darmi il permesso di cadere, non dovermi per forza rialzare subito e ripartire. Posso rimanere un momento giù, guardarmi intorno: cosa vedo da qui? Ma guarda, il cielo! Tenendo gli occhi fissi sulla strada non lo vedevo. Il fallimento allarga anche lo sguardo.
Bellissime come sempre queste riflessioni. Mi fai pensare che a volte, quando facciamo qualcosa, non conta solo il farla o non farla quella cosa (che può essere un qualsiasi obiettivo: la maratona, una laurea, risparmiare i soldi per un viaggio, ecc.), ma anche il senso che gli diamo, il significato, la narrazione che costruiamo dentro di noi. Anche quella è parte del processo di crescita, tanto a livello emozionale che razionale.
Grazie per avermi citata e anche perché sono molto felice di scoprire che Qualcosa é tra le tue nl preferite❤️ il fallimento é il tirocinio della vita: me lo ha detto la mia psi e credo abbia ragione. Parliamone sempre.