
Correvo un allenamento che non avevo ancora mai fatto prima. Prevedeva una prima parte di ripetute da 300 metri molto veloci seguite da una seconda parte più lunga in medio. Mentre affrontavo le ripetute non facevo che pensare a come avrei sopportato il medio a seguire. Mi spaventava un po’. In genere dopo le ripetute ho il permesso di morire in pace di stanchezza, l’allenamento si conclude con un defaticamento e poi posso stramazzare. Stavolta invece dovevo tenere duro e continuare a correre un tot di km a una velocità mediamente sostenuta.
Mi spaventava ma avevo anche voglia di scoprire come sarebbe andata. È allora che ho iniziato a pensare a questa newsletter, nel corso di quei km. Faticosi, sì. Ma sono stata io a volerli affrontare. L’allenamento me lo ha assegnato il coach ma io ho detto sì, vediamo come va; e poi di nuovo sì, ora li faccio e li termino.
Quando ti affidi a un allenatore in un certo senso sottoscrivi un contratto: ti impegni a farli, quegli allenamenti. Il contratto di fatto rafforza quello che avevo già firmato con me stessa alzandomi quattro mattine a settimana per andare a sudare e ansimare in pubblico, per quanto il ridotto pubblico dei camminatori e corridori dell’alba.
Nel corso di quest’ultimo anno e mezzo, da quando scrivo Kalò Dromo, mi sono domandata spesso cos’è la corsa per me. Mi sono data alcune risposte ma ho sempre lasciato aperta la domanda. Perché, appunto, prevede più risposte, che possono coesistere e anche cambiare nel tempo. In questo momento preciso del mio percorso - da runner ma non solo - la corsa per me è più che mai un allenamento a vivere. Anzi: a resistere alla vita che mi azzanna.
A un certo punto, per ragioni che credevo note ma ne celavano altre, e le sto ancora esplorando, ho scelto di praticare uno sport di resistenza, con una pervicacia di cui non mi credevo capace. La corsa è faticosa: è un fatto. Può essere anche dolorosa. Può morderti e può lasciarti stordita a bordo strada a domandarti ma chi me lo fa fare. È però anche uno spazio relativamente sicuro in cui testare i propri limiti, senza che niente (o quasi) vada davvero fuori controllo. È una fatica che posso prevedere e gestire. Quando non posso, è comunque “solo una corsa”. La vita che si prende il resto delle mie giornate è molto più imprevedibile e cattiva. Oh, se lo è.
Negli ultimi tre anni è diventata spaventosa per davvero. Devo ancora capire se le cose altrettanto spaventose che ho superato lo sono oggi meno perché stanno alle spalle (forse sì), ma quelle che sto vivendo adesso mi terrorizzano al punto che, in alcuni momenti, ho sinceramente pensato di non farcela a restare in piedi. Anche oggi è uno di quei giorni.
La perdita e il cambiamento sono cose non si possono dominare. Mai, in nessun modo. Si può al limite, con moltissima fatica, provare ad accettarle, rendendo l’attraversamento non meno burrascoso, solo accogliendolo come inevitabile. Queste parole sono vere per descrivere una corsa brutta e pure una cosa brutta che con la corsa non c’entra niente.
La fatica in allenamento non è niente rispetto a quella di affrontare ciò che mai vorrei. Eppure. Quando corro e soffro e fatico e sudo, e affronto i mille piccoli disastri che possono succedere dentro una corsa, mi sto allenando a sopportare tutte le burrasche. Se riesco a non mollare quando ho voglia di fermarmi e lasciar perdere, tornare a casa camminando o sedermi sotto un eucalipto a piangere, forse riesco anche a non fermarmi davanti a un’altra difficoltà? A guardarla in faccia e dirle: ok, sei qui, ma non arretro. Sì, mi fai paura, ma resto. Sono stanca morta, ma faccio un altro passo. Sì. La mia risposta è sì. Ci vuole molta più forza, determinazione, sì. Ma la pasta è quella. Il muscolo che serve è lo stesso. La resistenza.
Certi giorni la paura vuole mangiarmi, e certe volte ci riesce, ma poi a un certo punto spunto sempre dall’altra parte (non un granché, se seguiamo la metafora alimentare). Ne esco sempre ammaccata e con un po’ di quel buio impigliato nei capelli, non se ne va neanche con lo shampoo. Rimane. Ma dopo un po’ diventa parte della nuova me. Un pochino meno integra e però ancora intera, con qualche pezzo in meno e qualcheduno in più incastrato alla meglio.
Credo di aver capito che per me allenarsi per una maratona va oltre il desiderio di tentare un’impresa che pareva impossibile. Decidere di voler fare qualcosa di difficile mi ha schiuso una forma di libertà che non mi aspettavo. Posso scegliere io di soffrire e avere il controllo sulla fatica, per una volta. Non riguarda più guadagnarsi un traguardo. Ha più a che fare con il provare che posso resistere. E persistere.
E come sempre Kaló Drómo arriva mentre mi trovo di domenica ad una start line sotto il sole cocente! La leggo pochi minuti prima di partire assumendola come mantra lungo da ripetere quando tutto sembra complicato. Grazie Saraki mou, profonda come gli abissi e le riemersioni. Θα τα πούμε στη Μαραθώνα
Scoprire che abbiamo risorse che non credevamo di avere, sorprendersi di poter fare un altro passo e poi un altro, anche quando non credi di poter continuare. Capire quando invece è il momento di mollare e che lasciar andare, perdonarsi, concedersi di non essere perfetti,ci permette di andare più lontano.
Anche per me è questo, il significato più puro del correre.
Sei speciale Sarà e la tua attitudine mi affascina