Non mi è ancora capitato di cadere correndo, se si eccettuano le corse a perdifiato da bambina o le discese a rotta di collo in montagna. Più precisamente, quindi, non mi è ancora capitato di capitombolare correndo sull’asfalto. Ma in conto lo metto, gira voce in famiglia che sia una piedi-tondi, ed è vero.
Per anni ho praticato ginnastica artistica anche a livello agonistico, per anni ho corso, sono andata in MTB macinando molti km, ho fatto yoga anche piuttosto ardito, mi sono arrampicata sulle lave del vulcano e calata nelle grotte, sperimentato salti e passi di roller dance sui pattini a rotelle e altre cose ancora ad alto rischio ginocchia rotte. Ma tutti i miei infortuni sono avvenuti cadendo come una pera cotta, da ferma o quasi. Non chiedermi come, non saprei spiegartelo.
Le cadute di cui parlo oggi sono metaforiche, anche se non bruciano di meno. Al posto delle ginocchia ti sbucciano un po’ l’anima e molto l’orgoglio ma è più facile ripartire perché anima e orgoglio non richiedono la fisioterapia. Anzi, la corsa è terapia essa stessa, in grado di guarire quel tipo di ferite. Se dopo la caduta ti rialzi e riparti stai già curando il danno.
Le cadute a cui mi riferisco sono di tanti tipi. Per esempio un tempo molto oltre le mie medie, che mi fiacca lo spirito e mi fa pensare che tutti i progressi che credevo di aver fatto forse esistevano solo nella mia testa, pure se l’app che uso per registrare gli allenamenti ha le prove. Oppure capita una corsa disastrosa al punto che decido di interromperla prima del chilometraggio che mi ero prefissata. O una salita che credevo di essere pronta ad affrontare mi spezza le gambe e il fiato. Sono piccoli drammi in sé, neanche così frequenti, ma attentano alla fiducia nelle mie capacità e spiccano molto più di una lunga infilata di corse buone.
A rialzarmi da queste cadute ho imparato accettando che accadono e che accadranno ancora. La corsa è un fare, la teoria è lettera morta. E facendo si sbaglia. Cu mancia fa muddichi, diceva mia nonna. Cioè chi mangia fa briciole, variante siciliana del chi non fa non sbaglia.
Non tutto nella corsa può essere sotto il mio controllo, me lo dovrei tatuare dove posso vederlo. Molto sì: disciplina, costanza, l’alimentazione giusta, la scelta delle scarpe, la gestione del passo. Ma una brutta notte di sonno, condizioni atmosferiche avverse o più semplicemente la luna storta con cui mi alzo una mattina possono compromettere l’uscita, deviarla dalla sua traiettoria prevista o sperata e volgerla in disastro. Che poi devi raccogliere e portarti a casa. Pigghia e potta a casa, per restare sul siciliano. Non c’è possibilità di lasciarlo indietro, farci i conti è il solo modo per andare avanti (e imparare qualcosa).
Domenica scorsa il mio lungo è stato funestato da pioggia improvvisa e un vento di tramontana che pareva intenzionato a spellarmi. Per di più l’avevo contro. Volevo finire la corsa, stavo spingendo moltissimo e sentivo di poter migliorare i tempi perciò ho continuato, per pochi minuti mi sono pure sentita eroica. Umida, frastornata ed eroica. Cosa ho imparato? Riparati, scema. E portati l’antivento.
Alle mie prime uscite storte me la prendevo moltissimo, sentivo di aver fallito e mi fiorivano in testa domande come “ma che stai facendo? ma che ti massacri a fare? ma perché lo fai?” Quando ho cominciato ad accettare serenamente (o quasi) che mi capiterà di cadere, rialzarmi è diventato più semplice. Poi, un po’ sgualcita, riparto da lì.
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La tramontana di domenica scorsa la sento ancora anche io... mi sa che hai superato una grande prova di sopravvivenza 😅
E le verità della nonna in siciliano sono perfette, ne vorrei una in ogni newsletter ❤️
È la stessa cosa che penso
quando un'indigestione sembra voler fiaccara la mia motivazione da maratoneta delle abbuffate... buona domenica