La risposta alla domanda del titolo è asciutta e in apparenza priva di senso: da nessuna parte. Ma provo a spiegarmi. Poche sere fa a cena è saltato fuori il sanscrito, che studio da qualche anno. Senza scopo, per il solo piacere di farlo, per entrare dentro un’architettura linguistica (e di pensiero) complessa, maestosa, esatta. Pure difficile.
Non ho secondi fini. Non mi serve a nulla, non riguarda in alcun modo il mio lavoro, non miro a insegnarlo o usarlo per alcunché. Lo studio e basta. Perché lo studi? mi ha chiesto una persona presente a tavola. Perché non mi è utile, ho risposto. Ma non è vero. Utile è, solo non nel senso che oggi diamo a questo termine.
Mi è utile ad astrarmi, sospendere tutto quello che accade intorno a me nelle ore che trascorro dentro quel mistero che via via sto penetrando. Lentamente, senza fretta, per il gusto che mi procura immergermi tra le stanze della lingua. Il sanscrito me lo immagino come un palazzo. Vastissimo, articolato, armonico. Vago con immensa meraviglia, fatico sulle scale, mi inoltro nei sotterranei, mi spingo fino alle terrazze che, una volta in cima, mi aprono nuovi orizzonti di senso. Quando declino al locativo, coniugo un verbo di IV classe, riconosco un sandhi o recito uno śloka, io sono altrove. Assente dal mondo, presente solo in me. China sul dizionario, con la mente tutta assorbita da una parola, ritrovo una concentrazione che in ogni altro ambito mi sembrava di aver perduto.
E la corsa che c’entra? Le riconosco la stessa dimensione meditativa, quell’immersione totale nel gesto che esclude ogni altra cosa. Mentre corro, non posso fare nient’altro che correre. Mentre corro, sono nel momento. Anche se a volte la testa va e viene, poi torna sempre lì, in quel punto in perenne mutamento che è correre: un attimo prima sei qui, l’attimo dopo già là, eppure stai facendo ancora la stessa cosa, il medesimo gesto ripetuto.
Questo movimento, che è trasformazione, agisce sulla mia posizione nel mondo - nel senso che mi sposto da un posto all’altro - eppure non sto andando da nessuna parte. Agisce anche in un altro modo: sulla mia testa. Nei primi minuti la mia concentrazione è ondivaga, i pensieri continuano a impigliarsi nella mente. Rimugino su quello che è successo ieri, ripasso la pianificazione della giornata o della settimana, immagino come risolvere un problema, penso a persone, appuntamenti, scadenze. Poi succede qualcosa, un click che a volte posso avvertire distintamente, e la testa si disancora, ora è libera dai pensieri. Questa libertà posso dirigerla oppure no, e lasciare semplicemente che sia. Non servirmene. Sapere che c’è e non farmene nulla. Continuare a correre e basta.
Obietterai che non è vero che corro per il solo piacere di farlo, perché un obiettivo ce l’ho ed è la maratona. Ma - lo dicevo domenica scorsa - ho deciso di godermi il tragitto e restare immersa nel flusso che mi porterà fin lì. Dunque sì, nel lungo termine sto andando da qualche parte. Ma ogni singola corsa porta solo a se stessa. Corro per correre.
Che bella questa riflessione!
Dopo anni di liceo a sudare sul Greco antico che non mi è mai entrato in testa, a volte medito di studiare il greco moderno. Praticamente non mi serve a nulla, ma sarebbe una bella soddisfazione...
Io mi disancoro in bici, ma non ho ancora trovato la strada per la costanza.